
L’indebitamento pubblico dell’impero ottomano risaliva alla guerra di Crimea: non che la situazione precedente fosse particolarmente florida, né tantomeno efficiente l’amminstrazione finanziaria, ma il contributo alle spese di guerra dell’alleanza con gli anglo-francesi contro la Russia aveva aperto il mercato interno ai capitali stranieri, sia che fossero prestiti o investimenti.
I guai cominciarono nel 1863, anno della costituzione della Banca imperiale ottomana e di una prima crisi finanziaria cui si fece fronte ricorrendo a un prestito e creando ulteriore debito fino al default del 1875. La Banca imperiale, banca ‘di Stato’, divenne così contemporaneamente anche una banca privata con capitali inglesi e francesi che cercavano remunerazione nei prestiti concessi all’impero. Poiché era stato varato un imponente piano ferroviario avvenne che appalti e prestiti divennero il dritto e il rovescio della stessa medaglia.
I turchi, che non disponevano di imprese in grado di realizzarlo, erano costretti ad appaltare all’estero; i vincitori degli appalti richiedevano ‘garanzie’ in base alla lunghezza in chilometri del progetto e i turchi contraevano nuovi prestiti per pagare le imprese occidentali, che tra l’altro progettavano le ferrovie sulla base degli interessi europei e non di quelli turchi, come fecereo ad esempio i francesi in Siria.
Nel 1879, a otto anni dall’apertura del canale di Suez, sfruttando la debolezza dell’impero e la posizione al Cairo del vicerè ottomano indebitato a sua volta, Francia e Inghilterra imposero un primo ministro di loro gradimento e nel 1882 gli inglesi arrivarono ad occupare l’Egitto.
Turchia ed Egitto quindi, dove si erano insediate commissioni finanziarie internazionali per recuperare i debiti attraverso il controllo del sistema fiscale e finanziario, si trovarono alla fine spodestate dalla sovranità fino alla fine della Prima guerra mondiale. Se l’impero fu chiamato a lungo ‘il grande malato’, la colpa era anche dei medici chiamati a curarlo.
Tra il 1945 e il 1965 la produzione di petrolio sovietico quadruplicò e si diffuse tra i paesi occidentali una certa inquietudine sul fatto che Mosca tendesse ad usare le forniture per indebolire l’Occidente, rendendolo dipendente da questi approvvigionamenti. Ad alimentare questo timore vi fu anche la scelta sovietica di esportare il petrolio stesso, anziché impiegarlo nelle proprie industrie pesanti o direttamente a sostegno dell’apparato militare.
Tra i primi a rilevare una grave minaccia vi fu il Dipartimento di stato Usa che parlò ripetutamente di «offensiva petrolifera sovietica»: tra i primi effetti l’embargo al petrolio sovietico deliberato dalla Gran Bretagna dopo un lungo confronto tra il ministero dell’Energia (favorevole) e il ministero del Commercio (contrario).
Più complessa la reazione della CEE – istituita nel 1957 – originata dalla posizione francese che chiedeva condizioni rigide per tutti gli aderenti basate strettamente sulla ‘provenienza’: in pratica il timore era che, qualora un paese europeo avesse acquistato petrolio russo, lo avrebbe rivenduto etichettandolo come europeo.
In un secondo tempo la Francia fu ancora più esplicita chiedendo che fosse data la priorità petrolio nordafricano, ovvero estratto in Algeria, al tempo ancora legata alla Francia. In Europa del resto non esisteva ancora una politica comune nel settore petrolifero, ma sul carbone e acciaio (CECA, 1951) e sull’energia nucleare (EURATOM, 1957).
A metà del 1961 si prospettò l’adozione di una suddivisione ‘per quote’ riducendo così per tutti la parte di greggio acquistabile in Unione Sovietica. Temendo una compressione della quota italiana – come poi avvenne –, esattamente due giorni prima dell’inizio delle negoziazioni a Bruxelles, il presidente dell’ENI Enrico Mattei inviò a Mosca un proprio rappresentante per aprire altre trattative bilaterali e soprattutto riservate. Quando infine nell’aprile 1964 anche il governo italiano accettò il protocollo europeo sull’energia con il sistema delle quote, dal novembre dell’anno precedente era in vigore e già avviato un nuovo accordo italo-sovietico non più modificabile.
Oltre a queste situazioni di guerra economica vale la pena di ricordare anche altre operazioni spiccatamente offensive, di vero e proprio sabotaggio, il cui scopo era gettare nel caos l’avversario. Abbastanza nota durante la Seconda Guerra mondiale fu la falsificazione delle banconote inglesi e americane da parte dei servizi tedeschi, la famosa operazione «Bernhard» che si avvalse di deportati nei campi di concentramento nazisti per stampare quantità enormi di sterline e dollari falsi.
A causa dell’andamento della guerra non fu possibile realizzare però il capolavoro, ossia la falsificazione su larga scala delle banconote americane, ma nel frattempo erano stati stampati milioni di sterline false non riconoscibili da quelle vere se non dopo un’accurato esame con strumenti idonei. Sebbene oggi sia attribuita solo ai nazisti, in realtà l’idea della falsificazione era molto più antica perché risaliva almeno ai tempi della Prima coalizione, ossia alla guerra combattutta tra il 1793 e il 1797 tra la Francia rivoluzionaria da una parte e l’Inghilterra e i suoi alleati dall’altra.
In Francia infatti imperversava una grave crisi economica e finanziaria che aveva provocato l’inflazione, la scomparsa della moneta metallica e la circolazione di ‘assegnati’ cartacei, ovvero titoli del tesoro francese garantiti dai ‘beni nazionali’, utilizzati come banconote. In pratica per fare fronte all’inflazione si faceva ricorso all’emissione di assegnati che quasi nessuno accettava spontaneamente in pagamento e che inoltre circolando continuavano ad aumentare l’inflazione stessa.
Lo scozzese William Playfair, banchiere e matematico – peraltro legato al primo scandalo finanziario degli Stati Uniti, nonché uno dei primi collaboratori dell’intelligence inglese fondata da William Pitt – conoscendo bene la drammatica situazione in Francia, propose di stampare «un milione» di assegnati falsi da riversare sul mercato francese. Molti dettagli dell’operazione non si conoscono e restano impossibili da accertare, ma la crisi francese si acuì pericolosamente nel 1795, due anni dopo l’inizio dell’operazione di Playfair.